Introduzione |
Vi racconto la storia di una scoperta dovuta a
una serie di circostanze fortuite. Ho trovato un manoscritto. Anzi, un
dattiloscritto. No, non si tratta del celebre espediente letterario, cui
hanno fatto ricorso tanti romanzieri. Infatti questo libro non è un romanzo, anche se romanzesca è la storia della sua costruzione per giungere a presentare un documento storico rimasto chiuso in una scatola per più di settant’anni. Un paio d’anni fa mi è capitato di trovarmi a Cavriana nella casa ospitale di Teresa Barozzi e Dario Darra, riconosciuti custodi della storia e della memoria locale nel loro vecchio mulino trasformato in museo. E’ nota la loro passione per la ricerca e la conservazione di tutto ciò che riguarda il passato. Dopo il pranzo, nel bel mezzo della conversazione in cui evocammo alcuni luoghi del basso mantovano, Teresa d’un tratto si allontanò per prendere una grande scatola contenente vecchie foto, documenti, corrispondenze, reliquie e l’estratto di un diario scritto nel 1940 da un giovane chierico di San Giacomo delle Segnate, Luigi Giglioli, che immediatamente riconobbi come un amico di mio padre. Lo ricordo bene: Inconfondibile nella veste talare nera, versione militare, con tanto di basco della “Folgore” e un medagliere che gli copriva metà il petto. Nel diario si racconta di un incidente aereo accaduto nei cieli di Schivenoglia in cui persero la vita i cinque membri dell’equipaggio. Uno di essi, il motorista, era lo zio paterno di Teresa, Arturo Guerrino Barozzi. Nella scatola - e mi sembrò, aprendola, di entrare nel mistero della sua breve esistenza - i suoi documenti personali, il libretto di volo, molte foto in bianco nero che immortalavano momenti felici della sua giovinezza: in gita con gli amici, in posa sugli ondulati sfondi cavrianesi o accanto agli aerei, in un tripudio di ali, eliche, motori, sguardo e sorriso all’orizzonte (la fotografia è davvero il mezzo espressivo dell’epica moderna). Infine, le foto ufficiali dei funerali e quella della lapide al camposanto con solo il nome: Arturo. Nella scatola c’è anche una cartella verde: contiene molte lettere che si sono scambiate le famiglie delle cinque vittime per il tramite di Don Giglioli. Altre vele si alzano a scoprire l’intreccio di altre esistenze sconvolte dalla morte. Dai timbri postali si risale ai luoghi di residenza degli altri quattro: Parma, Lecce, Gorizia, Brescia. Le madri si scambiano, con le foto dei figli, confidenze familiari e informazioni utili per ottenere una pensione. Si aggrappano a poveri dettagli nel tentativo disperato di rimettere insieme, in un ricordo comune, i brandelli di quelle vite spezzate. La mamma di Arturo, vedova della prima guerra mondiale, scrive all’associazione delle famiglie dei caduti della R.A. per chiedere, e ottenere , prima un sussidio, poi la pensione. Scrive ai figli del duce, Bruno e Vittorio, che facevano parte della stessa squadriglia dei caduti. Riceve la lettera di un grande invalido della prima guerra mondiale, zio del tenente Banzi. Alla famiglia arrivano anche lettere di prelati e di amici dell’Azione Cattolica che di Arturo ricordano “l’anima aperta e cordiale, la passione ardimentosa del volare, dei cieli, dell’azzurro”. C’è anche l’elogio funebre che immaginiamo letto in chiesa dai suoi coetanei. E’ un testo vibrante di retorica patriottica che tuttavia rivela lo sgomento e il dolore dei giovani amici che, a pochi giorni dall’inizio della guerra, vivono la sconvolgente esperienza del suo costo. Si capisce, al di là delle frasi di circostanza, che Arturo doveva essere proprio una bella persona, rassicurante e aperta come appare anche nelle foto: un volto maschio, si sarebbe detto all’epoca, dai lineamenti forti ma non privi di una certa qual dolcezza. Nel guardare le foto dei cinque caduti e dei loro compagni d’arme vien da pensare a come sembravano già uomini fatti i ventenni d’allora. Del resto, la durezza della vita e della guerra che li ha inghiottiti obbligava a crescere in fretta. Anche Giglioli è poco più che ventenne, non è ancora sacerdote, sarà ordinato l’anno dopo. Osserva i fatti attento e partecipe, li racconta in questo dattiloscritto su carta velina con il piglio e il taglio del giornalista: l’impaginazione e l’inserimento delle foto dicono che è un testo destinato alla pubblicazione. Lo stile è ancora acerbo e debitore alla retorica dell’epoca, ottocentesca e curiale, ma è autentica e febbrile la commozione che alimenta il climax ascendente del racconto. Nelle campagne di Schivenoglia Il giovane chierico incontra il proprio destino. Accade infatti che, nel manifestare la sua seconda vocazione, quella di giornalista e scrittore, emerga in pieno la sua attitudine ad esercitare il proprio ministero sacerdotale là dove la sofferenza, il pericolo, la violenza, la morte sono più presenti: accanto ai soldati sui fronti di guerra. E sarà così. Nel 1941, appena ordinato sacerdote, chiederà di diventare cappellano militare e andrà in Africa, prima con i carristi dell’”Ariete”, poi con i paracadutisti della “Folgore”. Testimone della tragedia di El Alamein, prigioniero degli inglesi e degli americani, affiderà ad alcuni libri le sue esperienze e le sue riflessioni. Qui, come già nel dattiloscritto del ’40, cogliamo l’autentica fede e la cristiana misericordia per le sorti dei giovani soldati, di cui, con grande coraggio e sfidando molta opinione corrente, difenderà l’onore e il valore per il quale combatterono: l’amor di Patria, quando la parola Patria risultava impronunciabile perché identificata con il fascismo e le sue colpe. Il dattiloscritto, le foto, le lettere ci portano nel labirinto del tempo alla riscoperta di un’epoca lontana, per come fu vissuta nei nostri borghi e nelle nostre campagne. Sono testimonianze che consentono un’operazione di archeologia sociale. Le foto ci riportano ai luoghi e ai costumi di allora, oggi a fatica riconoscibili: le strade bianche, la campagna che quasi entra nella piazza con i suoi alberi “di servizio”, gli slogan del regime scritti sui muri, la foggia austera degli abiti; ai funerali, schieramenti militari e paramilitari sul sagrato, le donne assenti (sono già in chiesa, tutte sulla destra). E qui, nella “via bassa” della storia, improvvisamente si immette anche quella dei “quartieri alti”: Bruno Mussolini, il figlio del Duce è lì, perché uno dei caduti, il tenente Dugnani, è un suo amico dal tempo dei “Sorci Verdi”, una gloriosa squadriglia protagonista negli anni ‘30 della esaltante stagione delle grandi competizioni aeree internazionali in cui l’aviazione italiana fece man bassa di record e di trofei. Tutto quello che vidi e colsi quel giorno nella scatola di Teresa - la personalità dell’autore, i protagonisti, i personaggi storici, la documentazione fotografica, il carteggio, l’eco di una umanità dolente - mi diceva che quel documento attendeva da più di settant’anni di essere reso pubblico. Così, tornata da Cavriana, ho cominciato a cercare complici. Ma non era ancora il momento. Passarono alcuni mesi. Venne il terremoto e per altre cose non ci fu la testa. Un giorno dell’inverno scorso sono a San Giacomo delle Segnate e così, d’impulso, mi viene da riprendere il sentiero interrotto. Cerco il sindaco, trovo l’assessore, che diventa subito il primo complice e che trova anche il secondo, il farmacista di Schivenoglia che è anche editore e fa parte del circolo culturale locale. Insieme andiamo a Cavriana dai Darra che ci mettono a diposizione tutto il materiale, scatola compresa. Comincia la scansione dei documenti. Intanto la ricerca si allarga. Lavoriamo sulle testimonianze. Ne esistono due ufficiali, identiche, dunque senz’altro preconfezionate dalle autorità locali. Abbiamo appreso da un dirigente della Biblioteca Teresiana che la notizia della sciagura è stata occultata dalla stampa mantovana, probabilmente perché la causa poco edificante dell’incidente – motori in avaria a guerra appena iniziata – avrebbe avuto ripercussioni negative sull’opinione pubblica. Abbiamo cercato in paese un testimone vivente e siamo stati fortunati, non solo perché l’abbiamo trovato ma perché dotato di una buonissima memoria e di una naturale curiosità che lo portò, allora, a seguire con la vivida attenzione di un bambino di dieci anni tutti i fatti di quei giorni. L’abbiamo intervistato con l’amichevole e preziosa complicità di un etnografo e di un cineoperatore. Idealmente, con il nostro testimone siamo corsi sul luogo del disastro, abbiamo sentito l’acre odore del fumo, abbiamo visto i paracadute pencolare, i corpi nei fossi e nel rogo della carlinga; siamo entrati nell’emporio di Stori e abbiamo ascoltato le conversazioni tra le ragazze e gli aviatori, che arrivarono in gran numero a Schivenoglia per i funerali solenni. Abbiamo svolto una ricerca sull’aereo dell’incidente. Tutto lascia pensare che si tratti di un SM 79, “il gobbo maledetto”. Altri complici involontari confermano. L’associazione “Air Crash Po” pubblica sul proprio sito un elenco degli incidenti aerei sul Po dal 1940 al 1945: quello di Schivenoglia è il primo e l’aereo caduto risulta essere proprio un SM 79. Anche Il direttore del Museo della Seconda Guerra Mondiale di Felonica si è messo sulle tracce con noi. Nella memoria familiare dei Barozzi l’aereo in cui perse la vita Arturo è chiamato, così ricorda Teresa, “gobbo maledetto due volte”. Di quell’aereo Teresa conserva ancora un modellino costruito proprio dallo zio. Lo si vede in copertina. Abbiamo cercato di approfondire la conoscenza bio-bibliografica di Giglioli attraverso la lettura di alcune sue opere che abbiamo rintracciato anche grazie alla collaborazione di alcuni compaesani, che continuano a ricordarlo con ammirazione e con affetto. “Era una grande persona”, dice di lui l’amico Vittorio Carpeggiani. Abbiamo cercato testimonianze che lumeggiassero la sua personalità e il ruolo che ebbe nel clero e nella società mantovana e abbiamo trovato la squisita disponibilità del direttore del Museo Diocesano. Abbiamo ottenuto il patrocinio e il sostegno dei tre Comuni interessati, dell’Associazione Militari in Congedo di Cavriana, della Diocesi di Mantova, dell’Amministrazione Provinciale, dell’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, del Museo Diocesano, dell’Associazione “Arte e Cultura Schivenoglia”. Una bella, corale complicità che consente alla scatola di Teresa di liberare il suo contenuto e di mandarlo in giro perché altri scoprano, nella pagina di storia, la profonda complessità delle esistenze umane e il mistero del loro intrecciarsi in infinite trame. Agnese Benaglia |
|